domenica 3 marzo 2013

E l'arcobaleno di Gaza


Di Gaza, come di tutti i luoghi senza giustizia, se ne potrebbe parlare a lungo. Come si sa, Gaza è un luogo-non luogo, un posto dal quale non si può né entrare né uscire liberamente, non trattandosi di uno Stato comunemente inteso, è così che ha deciso Israele con il silenzio assenso di tutta la comunità internazionale. Dal marasma di sensazioni, riflessioni, immagini che mi assalgono, sono due gli aspetti che prevalgono sugli altri.
Il primo è l'assoluta frammentarietà di questo lembo di terra che nel nostro immaginario è un blocco compatto: la Striscia di Gaza. E invece benché la dimensione irrisoria (da non confondersi con popolosità) che fa sì che per percorrere la Striscia da Gaza city, al confine con Israele, fino a Rafah, verso l'Egitto, ci si impieghi, a occhio e croce, poco più di un'ora di macchina, questo apparente micro lembo di terra nasconde una diversità/varietà/complessità sociale difficile da immaginare. Gaza city è a nord della Striscia, la mattina intorno al piccolo porto si radunano i pescatori con il bottino della notte e la vita "sembra scorrere tranquilla", alle prese con quel che impone la quotidianità del momento storico, tregua o non tregua da parte di Israele. Se non fosse per le bandiere verdi di Hamas, per le numerosissime scritte sui muri che inneggiano, appunto, al partito e per le foto dei martiri appese quasi ad ogni palo della luce, Gaza city potrebbe sembrare una città araba come tante altre; per certi aspetti pure all'avanguardia dato che anche le donne, tutte rigorosamente velate, da qualche tempo possono fumare il narghilè in pubblico, agli occhi degli uomini tangibile segno di emancipazione che ancora faticano a digerire...a Gaza mi manca il caffè...
Man mano che si scende verso Khan Yunis fino alla frontiera con l'Egitto invece, il panorama cambia...aumenta vorticosamente il numero delle bandiere verdi di Hamas così come quello delle foto dei martiri, la maggior parte dei quali giovani, se non troppo giovani. Ed è proprio negli agglomerati di case tra Khan Yunis e Rafah che vengo inevitabilmente attratta da un altro aspetto: la donna nelle aree più remote di Gaza. Quella che non è nemmeno mai andata a Gaza city, ad una mezz'ora di macchina da casa sua. Quella che indossa un inequivocabile burqa nero che lascia trasparire molto poco della sua persona, solo il colore intenso, triste e intriso di rabbia dei suoi occhi. Quella donna che è la stessa dell'Afghanistan e di tanti luoghi del mondo dimenticati. Quella donna che subisce ogni giorno ogni forma di violenza, dal padre, dai fratelli, dal marito, dalla società. E allora va a finire che il burqa lo indossa "per tradizione", per religione, perché è così. E da quando Israele ha posto fine ad ogni contatto "costruttivo" con la Striscia, i suoi fratelli non lavorano più, così come suo padre, in famiglia non c'è alcuna fonte di reddito e nessuno vuole darla in sposa perché a causa sua dovrebbero dissipare parte dell'eredità. E allora non può sposarsi adesso e lo farà tra qualche anno, con un uomo molto più grande di lei di cui, sicuramente, non sarà nemmeno la prima moglie. Oppure se si sposa adesso (in media a quindici anni) e se non è con suo cugino in modo tale da non dissipare l'eredità, magari arriva a venticinque anni e capisce che quello tra lei e suo marito non è affatto amore, allora decide di divorziare e di tornare a casa di suo padre. Che però non la rivuole indietro come pure sua madre perché, economicamente, non sanno come badare pure a lei...ed è così che si ritrova a subire una quotidianità che non ha scelto, non può scegliere e dalla quale non può scappare dato che è anche mamma di cinque, sei, dieci figli. E tu sei lì che incredula la osservi e le porgi delle domande spesso idiote per "raggiungerla al di là del burqa" e capire chi è; mille pensieri ti frullano in testa, ti senti fuori luogo e fuori tempo, sei incapace di capire fino in fondo, lontana, molto lontana da quegli occhi neri e da quella voce energica che ti parla da dietro al burqa. E sorridendo, ricambi le sue parole gentili e superi quelle numerose barriere che vi separano ma senti un vuoto, un fardello pesante da sopportare, un senso d'ingiustizia che ti indebolisce. Lo stesso che ti fa camminare per quel lungo km dentro quella gabbia (il km di recinzione che si deve percorrere per uscire dalla Striscia ed entrare in Israele), contando i passi che ti separano da quell'orribile muraglia di cemento che divide la Striscia dallo Stato d'Israele, con la dura consapevolezza che tutto questo è arbitrario, non naturale, che per l'ennesima volta l'uomo si arroga dei diritti che non ha e che non sono dettati dagli schemi di nessun Dio, checché te ne dicano; e che nessuna occupazione considererà mai l'umanità che si cela dietro quelle case, che nessuno farà mai qualcosa per quegli uomini e quelle donne, a parte bombardare quando lo si riterrà opportuno o fomentare un disumano embargo di cibo e materiale...mentre ti ronza in testa quella sorniona e poco cruda frase di Fedro "che quando i potenti litigano, ai poveri toccano solo dei guai"...

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