domenica 12 giugno 2011

Un altro giorno è andato

Tata Hedia ce l’ha fatta. Almeno per quel che riguarda la prima tappa. Se glielo chiedessi, sono certa che mi direbbe che per lei è stata parecchio dura. E parecchio lo è stata anche per me. Perchè la prima volta che hai a che fare con i servizi pubblici in un Paese che non è il tuo, prevalgono la curiosità e l’osservazione. La seconda, lo studio e l’analisi. La terza, sai già quasi tutto e ti muovi con disinvoltura nei suoi incomprensibili meandri. La quarta volta prendi atto di quella che è, come mi disse Yosra, la vrai misère della sanità pubblica tunisina.

E così, Tata Hedia si è alzata alle sei di mattina e, a digiuno, ha cominciato la sua lunga, lenta ed estenuante giornata. É entrata in sala operatoria verso le 14 e intorno alle 17 era già a casa, intontita ma nel caldo del suo letto e tra le braccia della sua famiglia. 
Ancora una volta ha incontrato tanti impiegati, ha fatto la spola tra i consueti Mr. Wahid della radiologia e Mr. Mohammed del terzo piano. Ha avuto a che fare, di nuovo, con un macchinario rotto ma necessario per l’operazione. Peró questa volta è stata fortunata perchè l’omino addetto alla manutenzione non era in ferie e Tata Hedia ha potuto fare la radiografia necessaria all’operazione. Prima di essere operata, è salita e scesa dal primo al terzo piano ancora una decina di volte. Tutto bene, almeno per adesso che aspetta il risultato. 
Forse io e Tata Hedia abbiamo visto le stesse cose ma lei era troppo presa dall’intervento per soffermarcisi. Io ho visto di nuovo le stesse facce rassegnate delle donne dimesse e in maggioranza velate che ogni mattina aspettano compostamente che arrivi il loro turno. Sono tante, sono anziane, vengono da ogni parte della Tunisia, soprattutto dai villaggi rurali e non sono abituate a far valere i loro diritti imponendosi. E allora aspettano, se sapessero chi è Godot, forse aspetterebbero proprio lui. Ho scoperto che mentre le stesse donne aspettano con ansia, proprio accanto a loro, alla reception, ogni tanto passa una barella con un corpo coperto, un morto insomma, che come è noto rassicura sempre parecchio l’anima di un malato. Intontita dalla scena guardo ‘Am Yusuf il quale mi sorride e dice On ne meurt qu'une fois, si muore una volta sola, che per lui che è musulmano praticante è la cosa più normale del mondo. 
Nel padiglione dei tumori, la situazione non è delle più rassicuranti. Yosra mi spiega che quasi tutte le persone che muoiono hanno i piedi gonfi, les chaussures du voyage, come le chiamano loro, e a me che non ho mai visto un morto la cosa sembra pure un po' buffa. 
Aspettiamo Tata Hedia seduti sulle scale, di sedie non ce ne sono vicino alla sala operatoria. E per un pelo ci risparmiamo un bagno fresco di candeggina da parte della donna delle pulizie che, lavando le scale, non sembra essere troppo premurosa. 
Nel reparto, accanto a Tata Hedia c’è una ragazza con la quale comincio a parlare. Una ragazza del sud, semplice. Non so quale sia il suo nome però ha ventidue anni, due bimbi ed è già vedova. Il marito, pescatore di Zarzis, è morto annegato in mare eppure non stava andando in Italia, stava solo cercando un modo onesto per tirare a campare la sua famiglia. Lei adesso è sola, prima che scoppiasse la guerra in Libia andava al confine per vendere oggetti tunisini senza pretese. Adesso non sa come andrà avanti. Cerco di aiutarla a mangiare dato che dopo l’anestesia generale in reparto non ti portano niente da mangiare nè ti aiutano a farlo. Tra una parola e l'altra, intravedo ‘Am Yusuf che, di nascosto, per assicurare un trattamento 'decente' alla moglie, infila banconote di piccolo taglio nelle tasche dei vari medici, infermieri e portantini che gli si parano davanti. E così Tata Hedia guadagna una puntura di antodolorifico. La piccola ventiduenne no, non ha fatto nulla per meritarlo. Non basta essere malati per ricevere dei trattamenti 'decenti'. E già, è questa la sanità pubblica di un Paese in mano ai privati.

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